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Anna B. Battistero di Parma

Anna B. Battistero di Parma

Battistero di Parma.
Un vapore di luce si posava sulla pelle e commuoveva gli occhi della ragazza costringendola, con la dolcezza di un’amante, a sdraiarsi a terra, sul pavimento.
Marmi svettanti, archi come ossature primigenie riversi in volti di donna e di uomo. Santi di vita, senza turbamento. Quiete e luce di tuorlo, in cui confondersi.

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Gianmario

Gianmario

La bellezza, per me.
Il momento in cui sai che ha ceduto al corteggiamento, ma non ti ha ancora detto sì.
Quello è bellezza.
Non dura tanto ma è il più bello.
Sai che è attratto da te, però manca lo scalino che porta al primo bacio e all’inizio di qualcosa.
Sai per certo che la sua risposta sarà sì e ti senti a mille.
E’ il tempo del gioco.
Si gioca senza farsi male, come l’allenamento dei calciatori. Come i cani, che al parco si annusano, si rincorrono, si mordono, si buttano a pancia all’aria, si abbaiano, ma non si fanno del male.

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Giulia

Giulia

Perché Marco non stava mai in silenzio durante la salita? Si riempiva la bocca di storie che divertivano solo lui. Dopo un’ora di camminata: una cinta di monoliti di cui non riuscivano a vedere l’inizio e la fine. Lei ed Ilaria penetrarono nell’area interna attraverso una breccia. Marco continuava a blaterare supposizioni sull’epoca della costruzione. Finalmente si decise ad entrare. Le sue imperterrite parole, che non avevano smesso di accompagnarlo, furono moltiplicate. Per la prima volta quelle parole assunsero un senso anche per lei. I tre si ritrovarono immersi in un mare di suono, ogni parola dopo essere stata pronunciata sembrava non appartenere più ai proprietari, viaggiava nell’aria scomponendosi per insinuarsi infine negli orecchi degli uditori meravigliati. I tre, immobili, pronunciavano e ascoltavano. Non erano più grandi di un quanto di materia, facente parte di un organismo immenso e per lo più sconosciuto.

Giulia Berto

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Llilith

Llilith

Ferma! Hai una leeches addosso!!!
Una leeches?
Una sanguisuga!
Una sanguisuga? Panico. dov’è: sulle gambe? Sulle braccia?
Sta ferma che te la tolgo! Non è grande!
La leeches, se è piccola, basta darle un colpo netto e preciso con due dita, come se fosse una biglia su un tavolo. Quanti giorni sono che esploriamo la giungla? Il caldo umido, la pioggia, il fango, le sanguisughe non ci fermano, ci divertiamo ad adattarci. Continuiamo a cercare con lo stesso entusiasmo del primo minuto, e con la stessa meraviglia. Le felci, i funghi, le liane si stringono fra loro in un abbraccio che diventerà eterno. E le scimmie, e poi gli insetti grandi come una mano, corazzati come carri armati ed eleganti come in abito da sera.
Bannish, ci indica su, con il dito – Ascoltate: questo per noi è il canto della giungla. Una vibrazione sonora fortissima prodotta da un insetto piccolo come una penna rigata, una penna di quelle che si mangiano, con il sugo. All’improvviso Bannish ci fa fermare: – Guardatevi intorno. Riuscite a dirmi dov’è il sole adesso? Credete di poter sapere dov’è il nord, o l’ovest?
La poca luce che filtrava era identica da tutti i lati, a stento si riusciva a capire da dove si era arrivati, a meno che non si segnasse la strada col machete. Guardate lassù! Dice Bannish.
Un albero, con una testa larga come una portaerei, è pieno di scimmie: i macachi occupano la parte più bassa, a media altezza le scimmie grigie, quelle brune e le rosse. In alto un folto gruppo di nasiche, in pieno relax poetico, le più giovani immerse nel gioco del far le giravolte, altre impegnate a spelacchiarsi con la concentrazione di un’estetista al lavoro.
Su quel ramo, a sinistra! Dice Bannish. E la sua voce vibra di gioia.
Una mamma aveva creato lo spazio di tranquillità per sé e per il suo piccolo neonato. E lo cullava.
I nostri corpi vibravano di un’emozione che finora ci aveva ammutoliti. Le nostre bocche però erano stese in sorrisi sgargianti.
Questa è pura bellezza.

Llilith Minisi

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Riccardo

Riccardo

Storia di un uomo che si è trovato davanti alla bellezza massima…

C’era una volta il Conte De Leo. Era bruttissimo; aveva le spalle curve come boomerang, il naso come un’escrescenza e puzzava di cipolla. Possedeva case, appartamenti e qualsiasi altro bene materiale. In più collezionava opere d’arte. Aveva anche sposato molte donne bellissime per circondarsi di bellezza, sperando per osmosi, di riceverne un po’. Ovviamente ciò servi soltanto a renderlo più insoddisfatto. Quindi comprò quartieri, città intere, da cui allontanava tutte le persone brutte.
“Voglio comprare la bellezza, è l’unica cosa che mi manca. Dovete aiutarmi!” – disse ai suoi sudditi – “e chi mi consiglierà male, morirà all’istante”.
“Signore, si compri la casa automobilistica Ferrari, vedrà come diventerà bello in giro per le strade”.
“Già comprata. Rimango comunque brutto”. Così tagliò la testa del malcapitato.
Si poteva dunque supporre la tensione che c’era per le strade di DeLeste (ebbene sì, era arrivato a ribattezzare la sua città con il suo nome).
“Signore, si compri una clinica di chirurgia estetica e vedrà che bello che diventerà”.
“Stai dicendo che sono brutto? – tuonò – Solo io lo posso dire!” E gli tagliò la testa.
Il Conte De Leo capitò a Parigi dove vi era l’unica opera che non era riuscito a comperare: la Gioconda. Si diceva che il dipinto possedesse particolari poteri: la sua anima poteva parlare e suggerire risposte a dubbi amletici. “Voglio vederla!” esclamò risoluto a una delle tante mogli. Lei rispose “Oooh, ti amo!” e lui le tagliò la testa. Spiace scoprire i difetti del conte con il passare della narrazione ma almeno adesso possiamo affermare che era anche uno stronzo.
Arrivò al Louvre e notò una coda interminabile davanti al “suo” dipinto (lo considerava già suo) e gridò: “Andate tutti a vedere subito il San Girolamo a fianco, è bellissimo e non se lo fila nessuno”. Tutta la fila, sapendo chi era il Conte, obbedì all’istante, ma fu troppo lenta: lui tagliò la testa a tutti. Potete immaginare la tristezza del San Girolamo.
Si avvicinò all’enigmatica dama dipinta: “Uè, Gioconda!” esordì arrogante
“Qual è la vera bellezza? Mi sono circondato di donne, amici, oggetti costosissimi, ho comprato perfino delle vedute dalle quali ammirare bellissimi tramonti ma ho l’impressione che mi manchi qualcosa”.
La Gioconda lo guardò e lui iniziò a tossire violentemente, senza sosta, fino a sputare sangue. Ci stava rimanendo morto stecchito.
“In questo momento – disse l’opera – hai un tumore. La tua arroganza e cattiveria non ti hanno mai permesso di scoprirlo e curarti. Sei sempre stato superficiale e ora morirai”.
Il Conte, con un filo di voce, bisbigliò: “Almeno rispondimi, qual è la massima bellezza? L’ho cercata ovunque ma non l’ho trovata”
“E’ benigno” rispose lapidaria la Gioconda.
Il volto del De Leo si illuminò, la salutò e si fece curare immediatamente. Vendette tutti i suoi averi, chiese scusa al mondo intero, persona per persona, divorziò da tutte le mogli che aveva sposato, si allontanò da tutti i falsi amici che lo circondavano e ribattezzò DeLeste con il nome che aveva prima.

Riccardo Deleo

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Ramon

Ramon

Andavo ai giardini con mio nonno e salivo sopra all’altalena; mi spingeva cosi forte che toccavo il cielo.?Altalena, bici, pattini e pallone, poi a casa; e mia nonna ad aspettarci con un bel piatto di spaghetti al pomodoro e basilico. Poi io e mio nonno sul divano accendiamo la televisione e guardiamo i cartoni e li ci addormentiamo insieme.?Dopo il pisolino una bella partita a carte, mio nonno era campione di scopa, briscola, scopone scientifico. Mio nonno mi faceva vincere apposta anche se non lo voleva ammettere.?La cosa più bella era il tempo con mio nonno a raccontarmi di come si viveva al suo paese, di come ha dovuto lasciare la famiglia per salire al nord, di quanti lavori ha dovuto cambiare, e quanti ne faceva in contemporanea perché non bastavano per mantenere tutti.? Di quando faceva il galletto in discoteca e di quando ha incontrato il vero amore, mia nonna… La cosa più bella era ascoltarlo a bocca aperta, la sua gioia negli occhi nel raccontare; e quel sorriso.
Che bello che eri nonno, mi manchi.

Ramon Branda

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Serena

Serena

“Non ce la faccio… non ce la faccio”
“Si che ce la fai! Coraggio, sei forte!”?La voce calma della donna penetrava Marta nei momenti di tregua.
“Spingi! Spingi!”?Il tono era calmo, ma deciso e autoritario.
Marta avrebbe solo voluto dormire.?La forza rimasta si concentrava in quella manciata di secondi lasciando un senso di vuoto.
“Spingi…ci siamo!”?Marta sapeva che era arrivato il momento.?Strinse i pugni e?chiuse gli occhi.
Prima arrivò la testa, poi le spalle, l’incavo del collo, il busto, le gambe, i piedi ed infine il calore di una nuova vita sul suo ventre.
Gli occhi erano grandi come tutto il viso. Fu allora che Marta conobbe la pura bellezza, fu allora che entrambi ebbero la consapevolezza di essere, da sempre, l’uno parte dell’altra.
Serena Bavo

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Alba

Alba

Maglietta azzurro acqua, pantaloni di tweed estivi e sandaletti neri. Avevo anche messo moltissima cura nel pittarmi le unghie. Rosso chanel, come lei.
Tutti erano vestiti di nero o grigio. Io no, ero colorata io.
C’era un vento inconsueto, spazzava via dalle strade fogliame, spazzatura e a momenti anche la sciarpa che mi aveva regalato lei. <> pensai riafferrandola appena in tempo. Durante l’omelia una farfalla si era posata sulla bara. Era un segno! Voleva dirmi: non preoccuparti bambina mia, sono già in un altro corpo.
Sorrisi. Era una sorta di segreto tra me e l’universo
Uscimmo dalla chiesa, Il vento era cessato, il sole splendeva più che mai.
Nella strada verso casa vidi arrampicarsi dal cancello di una villetta una buganvillea fuxia, splendida e delicata. Era uno squarcio nella tela, preciso, definito come le zeta che chiudono la parola: BELLEZZA. Era la bellezza del presente e del passato, del ricordo… Quella volta che le aprii la porta di casa, lei tornava dal mare felice con una buganvillea in mano.
Ho staccato un rametto dalla pianta e l’ho portato a casa.

Alba Porto

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Patrizia

Patrizia

Il luogo affollato e anonimo, impregnato di odori soffocanti provenienti dalle cucine, dai magazzini, dai reparti, alcuni chiusi, altri aperti ad invasioni di ogni sorta,
Orrendo! Dico,ecco, mi trovo a Calcutta o a Kabul, ma che faccio qui?
Tranquilla, asettica clinica oltre oceano o oltre alpe no eh?
Nessuno mi parla, mi sistemano su un letto qualsiasi, (dico, questi chi sono? che devo fare?) Poi mi dicono dove abiti? Adesso conta fino a 10… Black out.

Silenzio e profumo di pulito, lenzuola fresche, sole sul mio letto, il dolore si sente latente perchè la voglia di vedere è forte. Un volto bello, indimenticabile, sorridente, sereno, mi porta il fagotto sul letto. Le curve dalla fronte al naso, perfette, cioè piccole, lisce, senza grinze, la bocca immobile, aperta. Gli occhi sono chiusi come un guerriero di Gengis Khan a riposo. Il sole ora illumina la testa, il cranio coperto da un pelo color mogano. Un dominante riflesso rosso. ora la bocca si muove un pò a lato, ammicca un sorriso, meglio di John Wayne in ‘Ombre Rosse’, meglio di Grant in ‘Caccia al Ladro’. E’ paffuto questo volto allora penso al sergente Garcia, l’attendente di Zorro. E non riesco a togliere lo sguardo, rimarrò sempre così, a guardare, tutta la vita.

Patrizia Barone

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Federica

Federica

Tre sorelle, una madre e un padre. Tutti sul divano, appiccicati. Un divano in legno chiaro con grandi cuscini verdi. Disegni geometrici marroni e gialli sulla carta da parati e la tavola ancora da spreparare.
Tutti con le gambe accavallate e le braccia in mezzo alle cosce per fare più spazio al vicino. Solo mia madre ha le gambe stese su una sedia. Chi è alle due estremità è più sfortunato perché appoggiato al bracciolo di legno.
Tutti immobili a guardare la tv. Ogni tanto qualcuno cambia posizione e fa cadere il telecomando sul pavimento in cotto. Mia sorella posa la testa sulla mia spalla ed io sul seno di mia madre.
L’unico rumore è la televisione ed il respiro un po’ più forte di chi per primo si addormenta.
E’ un peccato andare a letto, ci si riposa meglio tutti insieme, si sogna meglio, ci si sente al sicuro.
Bellezza: la mia famiglia aggrovigliata su un divano scomodo, un insieme di corpi abbracciati in una pace profonda, esclusiva.

Federica Tripodi

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Cinzia

Cinzia

Se quei nuvoloni in alto si stufano di questa brumetta che bagna la faccia, sai a che mi serve la mantellina.
Così riflettevo in un pomeriggio di luglio, che sembrava autunno, in Val di Rabbi, mentre percorrevo la strada sterrata imboccata a San Bernardo, che adesso, dopo un’oretta di salita lieve, era diventata una mulattiera.
L’ultima persona incontrata era uno di quei pastori indiani o pakistani o afghani, che ne so, che d’estate stanno in malga con le mucche, lavoro che nessuno, sulle Alpi, vuol più fare.
Ora la mulattiera si era fatta sentiero e aveva preso a salire con curve e tornanti.
Aveva cominciato a tuonare.
Mi aspettavo che il pastore sbucasse da dietro la curva, era il luogo ideale dell’agguato.
Arrivo alla svolta.
Il poco fiato che mi è rimasto si blocca.
Una coppia di cervi. Proprio davanti a me.
Il maschio, con un enorme palco di corna sulla fronte, le zampe anteriori ripiegate sotto la pancia.
La femmina, fiera e slanciata, quasi appaiata a lui.
Una coppia regale.
Un attimo, e i genitori di Bambi scompaiono nella bruma.
Quell’immagine di bellezza impaurita mi si è impressa sulle retine come un’istantanea.

Bellezza e paura.
La bellezza fa paura.
O è piuttosto la bellezza a dovere aver paura.
E la bellezza – come la paura –  si cura?

In un Paese come il nostro la bellezza non è mai sicura.
Un nuovo decreto legge consentirà di costruire in luoghi sotto tutela paesaggistica.
Le nostre coste, i nostri vigneti, i nostri boschi, le nostre pianure, i nostri borghi, le nostre paludi, i nostri uliveti, i nostri aranceti, i nostri laghi, i nostri fiumi, le nostre città, i nostri siti archeologici non sono per niente al sicuro.
In un Paese che potrebbe vivere di bellezza e per la bellezza, la bellezza ha paura e fa paura.

Cinzia Melis

 

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Sara

Sara

Camminavo in giardino, gli occhi stanchi, gonfi e un groppo qui, all’altezza della bocca dello stomaco. Mi fermai nei pressi del roseto per pura abitudine, alla ricerca di rametti secchi da staccare. Una sola rosa, coraggiosa, sfidava la stagione ormai passata. Mi avvicinai, invidiosa della sua vita, e solo allora la rosa mi svelò il suo segreto. Tra i petali un’ape addormentata (ma le api non dormono negli alveari?) e dunque morta, un’ape morta, lì, adagiata, serena, nel grembo profumato del fiore più nobile. L’ape aveva scelto la morte perfetta e il fiore l’aveva accolta. Me ne andai con la tristezza di chi ha spiato due innamorati.

Sara Beinat

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Rossella

Rossella

“Non ce la facciamo Gaia.”
Lei è diversi passi dietro me, mi guarda scoraggiata e io soffro vedendola così.
Rigiro la cartina tra le mani.
Orologio, cartina, Gaia che rimane indietro…
Finalmente, dietro all’ultima curva larga, la punta del Marocco.
Attingendo non so quali forze, stiamo correndo verso le colonne d’Ercole. Un blu profondissimo da cui sbuca l’Africa con una sottile sciarpa di nebbia: e vento, vento dappertutto.
Stridono dei freni.
Un pullman è la nostra unica possibilità di raggiungere in tempo l’aereo verso casa…
Ma è troppo presto…
Gaia si sporge per afferrare la punta dell’Africa.
Un gabbiano spicca il volo verso il Marocco, restando in bilico tra i due mari.
I grilli scoppiano a cantare.
Vedo risolversi davanti a me tutto il tumulto che ci portiamo in viaggio.
A Gibilterra si arriva a fatica e si resta giusto il tempo per oltrepassarla.
Gibilterra ti chiama per correre, e planare delicatamente… oltre.
È la svolta per noi, Gaia, non più studentesse, non più bambine… passeremo anni divise, affronteremo correnti verso mari calmi e oceani in tumulto, non so come, Gaia, ma in qualche modo faremo.
Gaia si volta in silenzio.
“Andiamo?”

E via di corsa verso l’autobus.

Rossella Guidotti

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Rita

Rita

Un odore pulito
di panni stesi.
Bianchi.
Profuma di cannella
di alloro,
di zenzero e di vaniglia.

Danza la luce intorno al lampadario
e svela le maioliche
da terra fino al soffitto.

Alì è lì.
Prega.

Altri uomini
in ginocchio
ascoltano
cantano
pregano.

Disegno perfetto sulla tela di un pittore, senza sbavature.

D’improvviso passi rapidi, vivace vocio.
Piedini di corsa, come chiazze di colore sulla tela.
Piccoli corpi attraversano la stanza.
Un bimbo e una bimba.

«Papà» – urlano i bambini

Io guardo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica.
Un uomo in ginocchio e due bambini accanto. Non pregano i bambini, giocano. Capriole incuranti del silenzio e delle maioliche. Entrano ed escono dall’inquadratura. La bambina mi vede, capisce. Si mette in posa con le mani sui fianchi. È il nostro momento, tutto è perfetto.
Premo il pulsante.
Ma la pellicola si riavvolge su se stessa.
Con un gesto invito la bambina ad aspettare, apro la borsa, rovisto tra le mille cianfrusaglie, rovescio il contenuto della borsa sul tappeto. Dove l’ho messo? Tasca dei jeans? Destra? No! Sinistra? No! Dietro? No! Tasca della giacca? No. Tasca interna della giacca? Sì Eccolo.
Cambio del rullino.
Sono pronta.
Guardo attraverso l’obiettivo e vedo uno spazio vuoto.
Mi giro verso la porta, l’uomo e i bambini sono sulla soglia.
Alì si volta, sorride e quello mi sembra il sorriso più bello del mondo.
Troppo bello per scattare.

Istanbul. Moschea Nuova Yeni Cami. 1 ottobre 2012.

RITA

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Laura

Laura

Mi ricordo che eri bollente, ricordo i tuoi capelli bagnati di sudore, ricordo che eri bellissimo. Quanto ti era difficile raccontarmelo. Mi stavi dicendo un segreto. Stavi raccontando a me il tuo segreto e ci conoscevamo appena. Ho percepito il tuo dolore e la voglia che avevi di condividerlo con me. Avrei voluto esserci stata prima per te, così magari avresti avuto un po’ meno paura.

Era il marzo più freddo che ci fosse mai stato a Roma, ma c’era caldo con te nel letto. Eravamo due chicchi d’uva, io sdraiata e tu sopra, mi guardavi attraverso i tuoi occhiali spessi, e io ti ho detto che mi piacevano tanto i tuoi occhi.
Sei diventato tutto rosso, sudavi, tanto, sentivo i battiti del tuo cuore che rimbombavano nel tuo petto appoggiato sul mio.
Mi sono pentita immediatamente di avertelo detto, non potevo immaginare, non sapevo che avessi un segreto, che lo avessero i tuoi occhi che mi piacevano tanto.

? ok, lascia stare, scusa, no, davvero scusa, non dovevo…
? no, è che…
? cosa? … no, non, scusa non devi dirmelo se non vuoi…
? no! E’ che non so come fare a dirtelo senza sembrare patetico
? non sei patetico
? avevo un problema agli occhi…
? non sei patetico
? e poi un giorno questo problema è diventato un po’ troppo difficile per me, era troppo difficile da gestire per me…
? non sei patetico
? e ho avuto un trapianto…

Hai cominciato a raccontarmi cosa aveva significato, a quattordici anni, sentirti dire che saresti diventato cieco, e cosa avevi provato quanto ti avevano detto che potevi operarti… Io ti guardavo, guardavo i tuoi occhi dietro gli occhiali.
Avrei voluto esserci stata prima per te. Avresti avuto un po’ meno paura a quattordici anni.
Ti avevo strappato quella storia dalle labbra, forse troppo presto. Stavi raccontando a me il tuo segreto e ci conoscevamo appena. Mi ricordo che eri bollente, ricordo i tuoi capelli bagnati di sudore, ricordo che eri bellissimo.

Laura Rovetti

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